lunedì 23 gennaio 2012

SPAZIOSEME

QUELLO CHE DICE IL CORPO

I ragazzi si muovono nello spazio.
Hanno dai venti ai cinquant'anni.
Un coro.
Procedono in avanti per otto passi, girano e tornano indietro.
Stesso accento, stesso ritmo.
Sono compatti, sono insieme, tutti nella stessa linea.
Cercano nella ripetizione della camminata un corpo altro, una centratura che dia forza e stabilità e tenda alla bellezza. Una bellezza intesa come presenza, come potenza.
Con lo sguardo aperto avanzano fissando un punto di fronte a sé, ci si aggrappano per un equilibrio che dai passi salga agli occhi, li illumini.
Camminano avanti e indietro da quasi cinque minuti, ma tra gli altri che seduti osservano, pronti a ripetere l'esercizio nella sessione successiva, nessuno è stanco di guardarli.
E' la percezione del tempo che definisce spettacolo la visione di un'azione.
La camminata produce un'ipnosi piacevole per lo spettatore, lo culla attraverso il rumore unico prodotto da una decina di piedi di un coro che procede, una falange non armata presa a perpetuare la sua marcia come unica azione da approfondire, come percorso che propizi attraverso la concentrazione una narrazione generata direttamente dal corpo, senza concetto o movente di rappresentazione.
Se attore significa “metter in moto”, “far andare azioni”, “operare”, “porre in azione”, soltanto il camminare, come azione consapevole, può sottintendere innumerevoli luoghi, tempi e narrazioni.
All'improvviso uno dei ragazzi rallenta, si ferma, si blocca e ascolta un nuovo movimento che si fa largo nel proprio incedere, lo accoglie, lo fa nascere rompendo lo schema del coro. Il corpo prende a raccontare trasformando lo spazio in una condizione favorevole all'espressione e si fa amplificatore di potenza e bellezza.
Tutti gli altri continuano a camminare perché solo la resistenza nel procedere è la base per ogni variazione. Soltanto se il resto del coro tiene in vita l'avanzata con precisione la variazione risulta visibile ed esalta il contorno.
Ogni componente troverà spazio e motivazione per far nascere la propria variazione. In piedi, a terra, rallentando il ritmo o sviluppando movimenti nati dal camminare e divenuti racconto in tempo reale.
Come tutte le storie da raccontare, c'è un inizio, uno svolgimento e una fine.
Dopo l'esplosione di variazioni, lo stop.
I ragazzi capiscono da dentro quando è tempo di terminare. Non hanno bisogno di guardarsi, né di mettersi d'accordo con le parole. Sono i loro corpi che sanno quando l'azione ha fine, quando la storia è stata raccontata e indipendentemente dal finale, ha raggiunto il suo compimento.
Alla fine i corpi sono immobili, come all'inizio.
Nella sala suona un silenzio che sospende l'aria, da la vertigine dell'altalena di tutti quei passi che hanno raccontato un tempo, marcato azioni e liberato umori, significati, sogni.
I ragazzi che hanno osservato assaporano il silenzio come carburante, accendono i loro sensi per vivere di lì a poco quello che hanno visto.
Sanno che solo insieme, ascoltandosi, potranno essere potenti, immensi.
Sanno quello che dice il corpo.
Si accingono a ricercarlo ogni volta, con lo stupore della prima volta.

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